Recensione Suspiria di Guadagnino: il non remake di Dario Argento
Dal 1 Gennaio uscirà nei cinema italiani Suspiria di Luca Guadagnino, già presentato allo scorso Festival di Venezia e alla stampa italiana. Nel film un cast stellare composto da Dakota Johnson, Tilda Swindon e Chloe Grace Moretz. Il film prende ispirazione dall’omonimo film di Dario Argento del 1977, il quale non ha bisogno di presentazione.
Quando Guadagnino ha annunciato che avrebbe diretto un nuovo Suspiria, i fan di Dario Argento e di un certo tipo di horror hanno accolto la notizia con molto scetticismo. La verità è che quello che accomuna i due film è semplicemente il nome e le circostanze alla base del racconto, per il resto Guadagnino decide di osare e correre su un binario diverso e separato.
Ad essere totalmente stravolta è la struttura narrativa: un film della durata di ben due ore e trentacinque minuti difficilmente potrà abbracciare suspense e adrenalina tipici di un certo filone di horror. Suspiria è un film incredibilmente lento ed incomprensibilmente diviso in capitoli (sei più un epilogo, per l’esattezza) che poco si cura di rientrare nei canoni horror.
Il rifiuto dei topoi horror è già chiaro quando a dieci minuti dall’inizio lo spettatore capisce che c’è una scuola di danza e questa è in realtà un covo di streghe. Si apre, quindi, una prospettiva sicuramente inattesa sugli sviluppi della trama. Questi tardano ad arrivare: Guadagnino dedica inspiegabilmente molto del suo film ad un plot secondario e irrilevante per gli sviluppi del film e a una contestualizzazione storica a dir poco forzata.
Se già in Chiamami col tuo nome l’eccessiva prospettiva storica faceva storcere il naso, il Suspiria i continui riferimenti alla situazione politica della Germania del 1977 generano semplicemente fastidio e confusione. Vedere le streghe che – durante una delle loro riunioni – parlano e vedono al telegiornale le ultime sul terrorismo palestinese è veramente surreale.
Suspiria di Guadagnino: Dakota Johnson è una falsa protagonista
A differenza dell’originale, questa versione di Suspiria è certamente corale. In un cast composto da sole donne, tutte hanno una funzione ed una storia che concorre a riempire di significato la sceneggiatura. Il grave problema è che Dakota Johnson non riesce neanche a spiccare in una condizione di primus inter pares. A causa di una performance attoriale totalmente piatta, il personaggio di Susie Bannion è marginale quanto mai.
Colei che riesce veramente a regalare una grande performance è Tilda Swindon che, non paga di interpretare Madame Blanc, una delle streghe-insegnanti, interpreta anche il dottor Klemperer, donandogli quel tratto necessario di ambiguità caratteriale.
Nel film c’è anche posto per il cameo di Jessica Harper, protagonista originaria, che conserva molta della sua innocenza per interpretare l’alter-ego del male, in un’effimera comparsa.
La regia di Guadagnino è totalmente da dimenticare
Se la scrittura del film è coraggiosa da un lato ma opinabile dall’altro perchè confusionaria ed inconcludente, la regia è da stigmatizzare in toto. Guadagnino scatena il suo inutile virtuosismo restituendo un’imbarazzante resa finale.
Il regista siciliano invece di offrire un legittimo senso di straniamento ed alienazione, restituisce solo un forte senso di fastidio per l’inconcludenza di plongees inutili, close-up fuori contesto e zoommate da dimenticare. Specialmente nei primi frame del film, le regole del montaggio sono totalmente stravolte in modo da restituire una freneticità del tutto artificiosa ed artificiale.
Tuttavia per brevi tratti la regia riesce a regalare momenti comunque di una certa esteticità. La messainscena dello spettacolo Volk è ad esempio molto particolare e suggestiva, come lo sono gli incubi che la protagonista subisce. Ad affossare totalmente i momenti successivi è anche la fotografia che – a differenza del capolavoro di Argento, in cui si alternano tinte rosse e blu aggressive – è totalmente inchiodata sul grigio per tutta la durata del film.
È proprio questo immobilismo che rende effimero lo slancio di colore rosso sangue (che corrisponde ad un’inaspettata verve splatter) accompagnante l’epilogo del film. In un misto di erotismo ed esoterismo, la conclusione del film è totalmente fuori dal film, sia narrativamente che esteticamente parlando.
Discorso a parte per la colonna sonora curata da Thom Yorke, storico frontman dei Radiohead e simbolo di una certa idea di musica. Il sottofondo musicale “d’autore” funziona solo a tratti. Se funge da ottima base per le prove del ballo, metafora artistica dei riti esoterici, risulta quanto mai debole nel finale: proporre un accompagnamento “stoned” ad un visivo surreale non è il massimo.
Il remake non-remake di Guadagnino, alla fine dei conti è un tentativo di proporre nuovi modelli di horror partendo dalle vecchie glorie. Il risultato, come intuibile, è molto scarso, ma – ad ogni modo – è un film che va visto per la forte carica emotiva che ha alla base.