Recensione Nel Paese dei Coppoloni: Film di Vinicio Capossela
Il film di Vinicio Capossela è arrivato nelle sale cinematografiche ieri 19 gennaio. E ci sarà ancora solo oggi. Lo abbiamo visto per raccontarvelo a modo nostro. Anche se è stato presentato come ponte tra il libro omonimo e l’album Canzoni della Cupa, in uscita il prossimo marzo, il film-documentario “Nel Paese Dei Coppoloni” è un lavoro molto ambizioso, che solo Vinicio Capossela poteva fare. Perché in questa narrazione misteriosa che ruota attorno a Calitri, Cairano, Morra de Sanctis, Andretta, Conza e il suo lago, in Alta Irpinia, travolti dalla modernità, lui ci sguazza, illuminando ogni storia e ogni luogo con la prospettiva del mito, tra canzoni nuove e vecchie, apologhi sul tempo e sul sacro, fantasmi di trebbiatrici e di ferrovie, ritratti di impagabili abitanti del paese dove abitava la sua famiglia.
Capossela per definire l’idea centrale del film ha spiegato: “Sono nato in Germania, da piccolo me ne vantavo. Così userò una parola tedesca: Heimat. Che qualcuno traduce con Patria, ma quello è Vatterland, termine maschile, forte, poi degenerato in mali peggiori. Invece Heimat è femminile, materno, esprime un sentimento, che è quello di una casa dalla quale si è separati. Tutto questo viaggio che ho fatto da viandante è verso un mondo magico e perduto, perché io non ho vissuto qui. Mettere insieme queste storie ha richiesto molto tempo, più di dieci anni. Ma non sono ricordi, non è un’operazione sulla memoria; la formula del ricordo è riduttiva: per me, come che per chi guarda, quelle che si vedono sono cose che non ricordiamo, perché non le abbiamo vissute. Eppure le riconosciamo”.
Nel film, tra lupi irpini e barbieri istrioni, incredibili rituali nuziali e case terremotate, frammenti di video d’epoca e testimonianze dello Sponz Fest, organizzato a Calitri ogni estate sempre da Capossela, appare quella che il cantautore definisce “un’Italia che è stata svuotata, e il cui vuoto l’attualità cerca di riempire in modo violento. La contemporaneità arriva sotto forma di centrali eoliche e discariche”. A prima vista sembrerebbe un moto di insofferenza verso la modernità, specie quando il viandante scuote la testa e ripete “Non ci si sposa più, non si miete più”, ovvero è finita l’era della ritualità condivisa. Ma Capossela sostiene che non è questo il punto: il punto è il mito, è “un’altra dimensione che ci accompagna continuamente e non è separabile dalle nostre vite. Io più che raccontare questa terra tento di trasportarla in una dimensione un po’ diversa, e dare una chiave allo spettatore per capire chi siamo, a chi apparteniamo, cosa andiamo cercando”.
“Nel Paese dei Coppoloni” è un film-documentario, ipotetica continuazione de “Il Paese dei Coppoloni”, il libro pubblicato da Capossela lo scorso aprile, anche se non è una semplice trasposizione cinematografica del libro. Ad essere sincero è difficile dirvi cos’è: si tratta di una serie di micro-capitoli dai nomi molto evocativi che raccontano un mondo fantastico. Ci sono personaggi e luoghi reali raccolti attorno ai paesi altirpini di Calitri (da lui definito il paese dell’eco), Cairano (il paese dei coppoloni), Andretta, Morra de Sanctis, ma c’è anche il chiaro intento di lasciare il tutto in una dimensione sospesa, dove i nomi diventano soprannomi, le immagini si fermano nel tempo e diventa difficile definire cosa è vero e cosa è inventato.
Quello che racconta Capossela è un mondo fatto di barbieri che cantano insieme ai loro clienti mentre li radono (Giovanni, il barbiere di Calitri, soprannominato “il veloce”), di mammenonne che intonano canzoni popolari in mezzo ai campi al tramonto, di direttori di coro che suonano impastando il dialetto calitrano al latino, di ferrovie che scorrono parallele ai fiumi e di trebbiatrici giganti che sembrano fatte apposta per stare in un circo. E poi tanti animali: i cani che scorrazzano per le vie abbandonate e quelli nel bosco di notte che aiutano gli uomini a trovare gli aspetti più nascosti della loro anima. Perché di questo si tratta: un racconto di tutto quello che l’ha colpito in maniera indelebile e che rappresenta quanto di più profondo ci sia nell’anima di Vinicio Capossela, che per tutto il film continua a domandare “Chi siete? A chi appartenete? Cosa andate cercando?” e poi si risponde “Vado cercando musiche e canti, i canti che transumano, cambiano lingua e pelle ma non il moto dell’anima che l’ha generati”. Queste domande e queste risposte sono il filo conduttore di tutto il film, ripetute continuamente quasi alla noia.
In conclusione, “Nel Paese dei Coppoloni” è un film folk, nel senso più fedele e bello del termine. Visionario e surreale ma, forse a modo, anche ordinato e discorsivo. Ti porta in un paese che probabilmente non esiste ma che in fondo conosci: non è solo la provincia italiana più grezza e dura, è un racconto affascinato e evocativo, dalle tanti chiavi di lettura. Qualcosa di più profondo della semplice nostalgia.
Per quanto riguarda invece le musiche, la colonna sonora del film offre anche una piccola anticipazione di quanto sarà contenuto nel prossimo album di Vinicio Capossela “Canzoni della Cupa”, previsto in uscita a marzo. Pare che Capossela sia tornato al suo lato più morriconiano e western, con un bellissimo equilibrio tra suoni sognanti e strumenti che sanno di terra come il banjo e il pianoforte a muro.
Al termine del film è stato proiettato un video di 12 minuti che illustra un nuovo brano, Il pumminale: “è una parola che significa lupo mannaro, una storia di seduzione e demoni per la quale ho contattato Lech Kowalski, regista polacco che ha documentato la scena punk dai Sex Pistols ai Ramones a Johnny Thunders. Non è stato semplice, ma è riuscito a venire in paese e, appena arrivato, subito ha detto: ‘Qui recupero le mie origini polacche’”.
RECENSIONE DELL’IRPINAUTA, SALVATORE NARGI