Perché i talent show rovinano la musica e come liberarsene
Prima di parlare di talent show pensiamoci un attimo. Immaginiamo che il cantante e la band di successo siano gli stessi che un paio di anni fa avevamo visto suonare dal vivo nel locale vicino a casa: dopo una bella gavetta sui palchi di pub, discoteche, bar e balere, dopo essersi fatti le ossa a suon di errori, malcontenti e stecche, dopo aver piano piano costruito un proprio sound e profilata una precisa identità musicale, un’etichetta discografica (ipotizziamo importante) sceglie di metterli sotto contratto. Costoro piacciono perché sono autori dei propri brani, posseggono uno stile personale e inconfondibile che li rende riconoscibili sin dalle prime note. Hanno certamente degli addentellati con qualche altro nome, magari del passato, magari anche grande, e forse qua e là vi si sono ispirati palesemente: tuttavia non scopiazzano perché non ne hanno bisogno, perché ciò che hanno da dire è il frutto della messe di idee maturate nel corso degli anni grazie all’esperienza, alla realtà toccata con mano ed esperita giorno per giorno; e, soprattutto, il modo in cui lo dicono è soltanto loro.
Adesso sviluppiamo un altro scenario. Gli artisti validi ci sono ma non riescono ad emergere dalla nicchia dell’underground. I dischi non si vendono quasi più e la musica popolare è diventata un prodotto per lo più televisivo. Tutti la “scaricano” in maniera più o meno legale, oppure, in alternativa, l’ascoltano in streaming a qualità appena accettabili ma buone come sottofondo per la palestra o il viaggio in macchina. Le case discografiche guadagnano sempre meno dalla vendita dei supporti fisici mentre trovano scampo nel mare magnum dei diritti d’autore, sottratti agli artisti con contratti capestro. La popolarità non è più la conseguenza di un percorso ma è diventato il fine ultimo, sul cui altare un giovane musicista è pronto a sacrificare tutto, anche (e soprattutto) la sua unicità. Proliferano belle voci, più o meno uguali le une alle altre, e si costruiscono personaggi vuoti come i giorni di vento, pronti a farsi maciullare dal tritacarne mediatico per esserne rapidamente soppiantati. E avanti un altro.
Dall’identità ai Talent Show
La domanda da porsi a questo punto è: quale dei due scenari è irrealistico? Dove sta la verità? Di fatto la risposta ha un che di sinistro. Viviamo un’epoca bizzarra, pervasa da contraddizioni e paradossi logici. Peraltro, da tempo la musica in questo paese è assurta alla funzione di mero diversivo: solo un numero più o meno ristretto di persone la intende come forma di cultura e arricchimento, vivendola di conseguenza. Avremmo la concreta possibilità, grazie alle nuove tecnologie, di accedere con facilità estrema a un’offerta mai così vasta e variegata di artisti provenienti da ogni dove, attingendo con un colpo di click a idee musicali spesso di livello qualitativamente medio-alto, eppure continuiamo a preferire l’imbolsito palinsesto dei canali radiotelevisivi generalisti, dove facce diverse cantano e suonano sempre le stesse invalse melodie. Ecco dunque che gli scenari sopraesposti non sono altro che due istantanee di un’involuzione storica, una parabola che riguarda gli ultimi quaranta o cinquant’anni di storia della musica popolare, tanto più irredimibile a pensare come la vacuità culturale coincida con l’accesso libero alla più vasta biblioteca di sempre. Se una volta non era nemmeno pensabile presentarsi a un’audizione portando una cover, oggi nei pre-casting proporre un brano inedito significa autocastrarsi: non cantare i brani scritti da altri (peraltro sempre gli stessi) equivale a uscire dal gioco, perché l’autore c’è già e quello che serve è solo il personaggio da dare in pasto alla muscolare quanto insipiente selezione massmediatica.
L’avvento dei Talent Show e la rovina della musica
In un contesto del genere non deve e non può sorprendere che i cosiddetti talent show sbanchino il tavolo. Questo tipo di spettacoli televisivi (perché qui davvero sta il peccato originale: dare valenza musicale ad uno show ideato per far cassa) sono il sottoprodotto di un disegno ben preciso, di un business plan progettato dalle major discografiche sopra un fertile terreno di ignoranza e cervelli docilmente plasmati. Con accordi contrattuali disgraziati, firmati sull’onda della frenesia, gli artisti nascenti perdono da subito il controllo delle proprie edizioni e in definitiva della propria carriera; inoltre, investendo esclusivamente sugli interpreti, quelli che hanno qualcosa da dire, gli autori, vengono automaticamente spostati nell’ombra, troncando sul nascere personalità potenzialmente ingombranti e quindi disturbatrici dell’establishment. Il tutto in un’ottica di ridente bonaccia tra artisti e mercato verso l’approdo ultimo dell’appiattimento definitivo. Belle voci tecnicamente anche valide, quanto orfane di un adeguato retroterra e della necessaria esperienza, vengono innalzate al ruolo di star del momento, incendiate dai fari della celebrità e dalle attenzioni di un imponente battage pubblicitario per essere poi scaricate pochi mesi dopo nel nome di un continuo e cannibalistico ricambio. Alcuni, fagocitati velocemente dall’oblio, spariscono definitivamente dalla scena con tutto il loro bagaglio di sogni e aspirazioni; altri si sentono dare dei finiti a vent’anni e vedono annullati i propri concerti per scarsa affluenza di pubblico. Insomma, non se ne esce.
L’antidoto ai Talent Show sta nella musica stessa
Eppure la soluzione sarebbe a portata di mano. Si chiama curiosità. Interesse. Amore per il bello. Sta nel comprendere che la musica è un dono meraviglioso e merita rispetto. Non può essere relegata al ruolo di tappezzeria. Spegnere la televisione e uscire ad ascoltare un concerto vero. Provare a innamorarsi di chi ha il coraggio di sostenere un’idea, anche non conforme alla propria. Tornare ad acquistare dischi, per provare il piacere dell’oggetto, del valore multipolare dell’opera. Se la musica si scarica, rispettare il diritto d’autore e pagarla, perché dietro a un lavoro ci sono mesi di fatica e battaglie, alti e bassi di creatività ed entusiasmo. Entusiasmarsi per sonorità nuove, per chi ha il coraggio di mescolare gli ingredienti in maniera personale, tentare strade alternative, e anche se magari dice poco o nulla sostenerlo nell’approccio, perché anche i Beatles e i Pink Floyd hanno avuto bisogno di turbamenti e trasformazioni. Ma soprattutto preferire il mondo reale a quello virtuale, la poltrona del teatro a quella del divano, la nota steccata al telecomando: l’arte non può essere orizzontale, non può esistere assuefazione a un modello unico prestabilito e il giudizio di valore deve necessariamente prescinderne. Altrimenti è solo business, omologazione, caramellosa coercizione. Una distopia piuttosto malinconica, in cui non è per nulla piacevole albergare.