New Yorker, provocazione sul fascismo: necessaria ma scorretta
Il New Yorker ha colto nel segno, o perlomeno ha trovato il modo giusto per essere provocatorio verso noi italiani. Giocando sul sicuro, anche, toccando il nervo scoperto da settant’anni dell’Italia fascista. Ma soprattutto, infierendo sulla nostra concezione di arte, ritenuta insindacabile e corretta. D’altronde l’Italia è quel paese la quale maggioranza crede che la Gioconda sia stata rubata dai francesi.
L’articolo di Ruth Ben-Ghiat, insegnante di italianistica all’università, però è anche approssimativo e in un certo senso storicamente scorretto, tanto da richiedere una correzione per poca chiarezza. Il giornale affermava in prima battuta che l’Italia è stato il primo paese, nel 1994, a portare al governo i neo-fascisti; il riferimento alla compagine di Gianfranco Fini era molto sottile, e di fatti dimentico del Congresso di Fiuggi. Scorretto poi nel concetto di “rieducazione” dal fascismo, parola allontanata dagli storiografi persino per il problema della Germania post-nazista.
New Yorker, il problema storico e artistico
Dopo il 1945 con il voto repubblicano, l’Italia non ha potuto concedersi un periodo di transizione, e ogni residuo del mondo fascista è stato nascosto sotto una coltre rossa di resistenza e partigianesimo. Come però la psicologia insegna, i fantasmi del passato emergono ogni tanto e riportano l’italiano alla condizione che ha cercato di eliminare.
Di esempi, durante lo scorso secolo se ne accumulano a centinaia, lo stragismo nero, i misteriosi tentativi di golpe, lo scandalo della loggia P2, i missini che hanno un immenso potere contrattuale. L’italiano è nascostamente fiero del periodo fascista, ad esclusione della carneficina della guerra naturalmente. Tanti artisti erano alla corte di Piazza Venezia durante il Ventennio, molti dei quali caduti nell’oblio per il meccanismo menzionato prima.
È stata l’ultima spinta propulsiva artistico-architettonica, certamente non paragonabile agli analoghi movimenti europei, ma comunque degna di nota. L’indole nostrana, dunque, è quella di cercare di ignorare infantilmente il simbolismo che nasconde l’arte fascista per goderci tout court quell’ultimo “grande balzo in avanti” della storia dell’arte. Poco importa, detto con infantile innocenza, che sul Palazzo della Civiltà (informalmente Colosseo Quadrato) campeggi parte della dichiarazione di guerra all’Etiopia.
Proprio quei meccanismi di rieducazione, imposti come si impone a un bambino di non essere mancino, hanno portato al fetish (ovvero l’adorazione spasmodica) verso tutto ciò che era del ventennio perché proibito. Così intrigante da spingere i grandi maestri del neorealismo da Fellini ad Antonioni a narrare le proprie storie tramite l’impatto visivo voluto da Guerrini e Lapadula.
Questo è il vero motivo per cui ancora camminiamo sul marmo di travertino fascista o su tombini che recano ancora il fascio littorio: il mancato superamento del nostro passato e la malizia che abbiamo nel guardare i simboli fascisti; ma soprattutto la mancanza di un nuovo “rinascimento” artistico che possa farci smettere di essere quel popolo orribile di “santi, poeti e navigatori”.