Recensione de “Le Notti di Cabiria”: il racconto di Fellini tra realtà e magia
Le Notti di Cabiria è un’opera particolarmente importante per Federico Fellini, poiché costituisce una pellicola di transizione all’interno della sua filmografia, in cui vediamo unirsi le due anime che dividono il suo cinema prima e dopo, ovvero le fortissime influenze neorealiste di De Sica, Rossellini e Visconti e il suo immaginario più astratto e surreale, affermatosi con capolavori quali “8 e 1/2”, “La dolce vita”, “Amarcord” e più in generale tutte le sue future produzioni. Andiamo quindi ad analizzare nel dettaglio questa affascinante opera, nel tentativo di comprendere perché sia ancora oggi estremamente importante per il cinema italiano e la sua storia artistica, oltre che risultare proprio per questi motivi un’opera di introduzione interessante per avere una summa adeguata, suggestiva e soddisfacente del suo estro artistico, attraverso uno dei suoi film migliori in assoluto.
Le Notti di Cabiria: trama e recensione del film
Il film vede protagonista un’ingenua e modesta prostituta dei quartieri poveri di Roma, Cabiria, che suo malgrado si ritrova ogni giorno e notte a viaggiare nella città, assistendo ed essendo partecipe degli eventi e degli individui più disparati che si pareranno davanti ed attorno a lei, costruendo la sua storia e la sua crescita personale. Il solo soggetto della pellicola ci mostra sin da subito il marchio di fabbrica di Fellini, quell’incredibile realismo magico che solo lui stesso è stato capace di materializzare su schermo e che qui si mostra poco a poco, creando un racconto davvero peculiare e particolare.
La protagonista, interpretata dalla meravigliosa Giulietta Masina in una prova attoriale incredibile, diventa un inconscio Virgilio che ci guida, attraverso la sua candida ingenuità e voglia di sorprendersi vivendo giorno per giorno, nelle strade della Capitale che apre allo spettatore, come un vero e proprio teatro, scenari tanto realistici quanto assurdi e per questo incredibilmente rappresentativi della casualità di una grande città e delle sue particolarità, oltre che della concezione che lo stesso autore ha della vita stessa. Ciò che vediamo durante tutta la durata del film mantiene un sottilissimo equilibrio tra queste due realtà, in un’armoniosa sinusoide che cambia la visione della realtà ma non essa stessa, ed è qui che entra in gioco la magia che conosciamo da uno degli autori più importanti di sempre, perché il dipinto felliniano ci porta nei meandri di luoghi drammatici, sopra le righe ma autenticamente giocosi proprio per la loro malinconica bellezza; Roma è un posto indescrivibile, misterioso ma accattivante, al suo interno sentiamo la stessa sorpresa che la protagonista prova osservandola e vivendola, proviamo un grande senso di disorientamento dettato dalle situazioni e i contesti più diversi, che a volte ci colpiscono per la loro onestà e brutale asciuttezza ma che creano scorci su altri più distanti da una realtà così terrena ma egualmente paritari dal punto di vista emotivo e concettuale, sempre capaci di non sfociare nel non-credibile. Tutti questi momenti che compongono la storia del film sono accompagnati dalla musica e dal ballo, altri due personaggi fondamentali nel cinema di Fellini che vanno a comporre il fil rouge tripudiante e coinvolgente delle sequenze, onnipresenti ed accompagnamento quasi letterale ad ogni passo che compieremo.
Durante il nostro viaggio scoperchiamo tutte le facce che la città nasconde, tra lussi eleganti e sfarzosi e borghi di greve povertà che si stagliano gli uni sugli altri, teatri di grande spettacolo, palazzi luminosi, luci al neon e divertimenti effimeri che contrastano con le distese desolate della periferia e vissuti di stenti, quotidiane interazioni umane e coreografie di altrettanti esseri comuni, che convivono con altri più strani, nebulosi e sopra le righe, due aghi della bilancia estremi uniti solo dalla forza vitale fondamentale per l’esistenza stessa e che muove tutto ciò che ci sta attorno.
In tutto questo è interessante constatare quanto ciò diventi estensione della psicologia di Cabiria, come donna spontanea ma idealista e sognatrice, e dei suoi desideri, e in particolare quanto il suo nome non sia certamente una scelta casuale: esso è anche uno dei film più importanti ed imponenti del cinema italiano, il primissimo a rappresentare una società sfarzosa, piena di colori e grandiosa ma il cui centro fondamentale era il dramma umano dei personaggi, un parallelismo che non solo lascia trasparire l’amore di Fellini per il cinema, ma anche un rapporto morale e psicologico molto stretto tra personaggio e contesto, rendendo l’intera storia una metafora particolarmente efficace. Proprio attraverso questa filosofia si viene a creare la struttura narrativa dell’opera, poiché tutto viene presentato in maniera episodica, mostrando istanti, attimi ed esperienze apparentemente scollegate tra loro ma realmente cucite attorno al carattere della protagonista, una scelta di scrittura che ci narra quasi una fiaba contemporanea dai tratti tematici marcatamente decisi, in quanto Fellini usa questa frammentazione narrativa per portare in campo la propria visione del mondo anche in questo caso, mettendo sullo stesso piano l’ingannevolezza dell’essere umano e la sua candida innocenza, un altro grande incontro-scontro che da secoli fa coesistere gli individui, ma arrivando anche a parlare della disillusione dell’esistenza comparata con il becero fanatismo religioso (che si manifesta in una scena simbolica all’interno di una chiesa, tra le più inquietanti e deliranti dell’intera pellicola), la fallibilità dei sentimenti a fronte dei misteri di ogni persona ma soprattutto la fondamentale importanza di avere una propria concretezza morale e personale, indispensabile per sopravvivere nel circo della vita, ma che deve lasciare anche spazio al proprio lato bambino, immacolato e volto a guardare ogni cosa con la leggerezza di un animo pulsante, bramoso di raccogliere le cose belle e brutte che il mondo può offrire. Proprio per questo motivo, possiamo parlare di questo come un film romantico, non solo per la storia d’amore centrale che coinvolgerà la protagonista a fianco di un uomo apparentemente sensibile e dolce, interpretato da François Perier, e che porterà ad una parte finale drammatica e particolarmente intensa nella sua malinconia, ma anche nella rappresentazione che Fellini offre della sua amata Roma; noi la vediamo descritta in tutte le sue sfaccettature, dove si percepisce l’amore del regista verso un luogo dal legame affettivo profondo, la bellezza si scorge ovunque, tanto nei pregi che nei difetti, ogni strada, palazzo, viso, voce e suono diventano forma e sostanza di un corpo affascinante, quasi come una donna complicata ma meravigliosa di cui non si può mai realmente fare a meno e di cui si adora indistintamente ogni piccolo aspetto, la passione, l’atmosfera, la ricchezza e la povertà, dove tutto si racconta e tutto si nasconde. Questa non sarà soltanto una tematica ricorrente nel cinema del regista, ma in questo film è una vera e propria lettera d’amore e di sincero legame verso un luogo fisico e metaforico indissolubile, un esempio di come l’arte sia sempre e comunque l’espressione di una parte di sé.
La regia di Fellini rimane sempre molto elegante, in perfetta linea con l’atmosfera delineata dal film e dal suo cinema tutto; l’immagine visionaria dell’autore si sviluppa in pellicola attraverso un uso molto ponderato e cauto della macchina da presa, la volontà è quella di costruire delle istantanee efficacemente portate su schermo con riprese fisse, movimenti di macchina molto compassati che vogliono seguire la protagonista nelle sue vicende, alternando primi piani sulle espressioni degli attori (la cui differenza tra naturalezza e teatralità molto accentuata dalla regia stessa è importantissima nella scissione tra gli animi dei personaggi e il loro ruolo nella società nonché nella storia) e ampi campi lunghi a seconda dell’importanza concettuale che comporta ogni singola scena; cominciamo anche a vedere le primissime rifiniture nella composizione scenografica e coreografica dell’immagine stessa, come il posizionamento degli attori nell’inquadratura e i loro movimenti al suo interno, oltre ad un dosatissimo uso del bianco e nero.
Questo è l‘ultimo film di Fellini ad usare il monocromo prima del passaggio al colore, e questa soluzione viene adottata per accentuare ulteriormente il contrasto onnipresente nella storia e per donare un velo di malinconia in cui i due colori prevalgono l’uno sull’altro parallelamente all’andamento emotivo della protagonista, altra riconferma della cura con cui questo formidabile autore ha deciso di rappresentare l’intero film. Il montaggio è sinuoso e delicato, le transizioni in trasparenza nel passaggio tra una sequenza e l’altra contribuiscono a suggerire un unico flusso di coscienza a diramare la progressione della trama, unendosi perfettamente al quadro sobrio ma libero e leggero di tutto ciò che vediamo apparire davanti a noi.
Infine, impossibile non parlare della meravigliosa colonna sonora di Nino Rota, un pezzo importantissimo della musica cinematografica italiana e che qui dona come non mai la sua forza espressiva; i brani utilizzati sono un connubio perfetto con il contesto e le vicende narrate, dove odiamo sonorità popolari e folkloristiche dalla bellezza autentica, un fascino terreno il cui obiettivo è proprio quello di trascinare lo spettatore anche uditivamente nei posti e nei temi dell’autore. E’ così che Fellini vuole parlarci di sé e della sua visione, portandoci nel piatto una pellicola molto malinconica, muovendosi nell’astrattezza delle cose concrete e innalzando la significativa concezione di esistenza, ci troviamo quindi davanti ad un’opera che esalta la vita vissuta nei suoi sentimenti più puri e sinceri, ci fa vestire i panni di una persona incredibile nella sua semplicità e Cabiria stessa diventa partecipe del messaggio del film chiedendoci di capire, con uno sguardo in camera e con una sequenza finale tra le più belle della storia del cinema, che nonostante si possa perdere tutto è proprio quando la vita, i suoi sentimenti e la sua malinconia fanno parte del nostro animo che ci si può sentire davvero completi e presenti a sé stessi, pronti per rinascere di nuovo.