La Casa di Jack: recensione in anteprima del film di Von Trier
Lars von Trier ritorna al cinema cinque anni dopo Nymphomaniac con The House That Jack Built (La Casa di Jack), film che segna anche la fine del lungo periodo di allontanamento del regista dal Festival di Cannes. Il regista danese dirige Matt Dillon e Bruno Ganz in un film su un sanguinario serial killer, Jack, che uccide per compiere opere d’arte, per raggiungere la perfezione.
Diviso in cinque capitoli, chiamati “Incidenti” ovvero omicidi, e l’epilogo, chiamato catabasi, il film si struttura come un dialogo tra il serial killer e la sua guida, chiamata emblematicamente Verge. Jack affronta un viaggio interiore alla ricerca della perfezione, i pochi omicidi narrati sono lo specchio di un lungo percorso alla ricerca della felicità nato in seno ad un disturbo ossessivo-compulsivo.
La Casa di Jack è veramente un film horror?
Von Trier ha definito The House That Jack Built come il suo film più violento. Le polemiche sorte intorno alla proiezione a Cannes hanno alimentato il mito di un prodotto cruento oltre i suoi soliti standard. In realtà – come sottolineato anche da Matt Dillon – La Casa di Jack è un film profondamente ironico, capace di alleggerire la violenza psicologica e carnale che il montaggio non vuole nascondere. Giocare sulla natura selvaggia ed estrema del film ha certamente fomentato il passaparola e l’attesa.
Ad ogni modo qualsiasi spettatore abituato alla produzione horror contemporanea, pratico di sadiche carneficine splatter, non avrà problemi a digerire le scene particolarmente cruente. La vera violenza, fermorestando che sia la stessa definizione che Von Trier dà al termine, è nell’attesa volutamente prolungata prima di ogni efferato omicidio.
L’abilità registica è proprio quella di immergere il pubblico nell’attesa spasmodica del fatto di sangue, ritardato magistralmente con dialoghi surreali e riflessioni argute sull’arte e sulla filosofia. Questa componente non è una semplice sottotrama, ma il filo portante del film che non nasconde anche una certa tendenza all’autobiografismo. Von Trier vuole essere accomunato al sanguinario Jack che, tramite la violenza, è alla ricerca dell’opera d’arte perfetta. L’autobiografismo, tuttavia, non è scontato come può sembrare. Le lunghe digressioni sulla filosofia schopenhaueriana e su un certo filone di letteratura romantica e medievale non sono decontestualizzate dalla narrazione del serial killer.
Von Trier riesce, e questo è il successo del film, a rendere credibile la follia omicida di Jack, raccontarla con spiccata ironia e collegarla a riflessioni teoriche ed astratte senza cadere nel vaneggiamento. La casa di Jack, al netto di alcune obbligate semplificazioni, vuole essere un film che – dantescamente – esplora gli abissi della violenza e dell’oscurità per cercare il proprio paradiso. La vera questione, quindi, non riguarda la condizione infernale in sè, ma il suo superamento.
Regia e Struttura Narrativa ne La Casa di Jack
La struttura narrativa del film è molto simile a quella digressiva utilizzata in altre occasioni dal regista, come ad esempio in Nymphomaniac. Sebbene renda godibile il film, non si adatta bene alla sceneggiatura come in altre occasioni. Raccontare le vicende del protagonista in maniera confusionaria e casuale lascia diversi dubbi allo spettatore. Von Trier lo sa e ci ironizza su: il rimedio, però, è peggiore della cura.
La Casa di Jack, oltre ad essere un film intellettualmente brillante, è anche profondamente misogino e fortemente “scorretto”, probabilmente sempre per accentuare l’immagine negativa che Von Trier ha cucito sulla propria persona. Le donne che ruotano intorno al protagonista non sono intellettualmente e spiritualmente degne di elevarsi alla lucida follia dell’omicida. A loro il viaggio infernale, e la conseguenza risalita, è precluso da uno sbarramento operato a priori. “Uccidere le donne è più facile”, dice Jack. Infatti le sue vittime preferite hanno un nonsochè di caricaturale. Ad esempio la vittima del suo quarto “incidente”, Jacqueline Simple è l’emblema della bella ragazza sempliciotta (il cognome è eloquente) che si fa lusingare ed umiliare da un uomo intelligente e dominatore.
Dal punto di vista registico La Casa di Jack è un mix fortunato di diversi stili: dal manierismo della discesa agli inferi e del tableau vivant, alle riprese da mockumentary passando da sequenze riprese con la GoPro. La verve schizofrenica di Von Trier, ben abbinata alla colonna sonora che passa dalla musica classica al funk, permette la completa immedesimazione con il protagonista che condivide la catabasi con il suo spettatore.
Il citazionismo e soprattutto l’autocitazionismo è fortissimo. Se è vero che Von Trier basa il suo film su un certo tipo di riflessione romantica, degna degli artisti dello Sturm und Drang, non mancano riferimenti all’architettura classica, alla pittura moderna, alla poesia, a teorie politiche, ma in particolar modo alle altre opere di Von Trier. La lacrima che scende sul volto di una vittima di Jack non può che ricordare il celebre close-up di Nymphomaniac; la sposa sola nel prato ricorda fortemente Melancholia e le scene silvestri quelle di Antichrist.
Il nuovo film di Lars Von Trier non è propriamente un prodotto “coraggioso” e non è tra le migliori opere del regista danese, ma la sua volontà di innovare, di proporre cinema d’autore e di provocare intellettualmente lo spettatore è più forte che mai.