It film 2017: trama e recensione
Il rapporto di Stephen King e le sue opere letterarie nei confronti delle rispettive trasposizioni cinematografiche e non è sempre stato notoriamente turbolento, non solo per via di una qualità di queste ultime costantemente altalenante nel corso degli anni, ma anche per un’avversione spesso evidente da parte dello stesso scrittore in tal senso (uno degli esempi più lampanti in questo senso si materializza con lo “Shining” di Stanley Kubrick, il quale nonostante l’universalmente nota importanza nel mondo della Settima Arte in origine venne ripudiato dallo stesso autore).
Come detto, però, i casi cinematografici poco riusciti dalle storie del Re sono stati molteplici, tra cui Brivido, scritto e diretto dallo stesso autore, ma anche i vari The Majestic, Secret Window, L’acchiappasogni o i più recenti Cell e La Torre Nera, tutti film incapaci di capitalizzare sul materiale originale e creare una propria identità definita, complice anche uno stile di scrittura, quello di King, estremamente complesso da traslare in un medium differente da quello letterario.
Questo preambolo diviene quindi necessario per contestualizzare il film di cui parleremo in quest’occasione, ovvero “It”, ad opera dell’emergente Andrés Muschietti, una pellicola che indubbiamente porta sulle sue spalle un fardello enorme caratterizzato non solo da quanto descritto poco sopra, ma anche dalla necessità di riscattare una prima trasposizione televisiva degli anni ’90 su cui, per quanto fortemente radicata nella cultura popolare e diventata un prodotto di culto proprio per questo motivo, pesa enormemente il passaggio del tempo, sfida a cui non è stata capace di resistere e che quindi porta a far decadere il valore della stessa se analizzata con un occhio più contemporaneo. Andiamo quindi a scoprire se questo nuovo riadattamento di una delle storie più note ed apprezzate di Stephen King sia stato capace di offrire una gloriosa rivincita o un bruciante fallimento.
It 2017: trama
La trama del film di Muschietti ripercorre in maniera piuttosto fedele la linea narrativa impostata dal libro di King, con l’unica differenza presente nella linea temporale in cui essa è inserita, poiché non viene più situata negli anni ’50 ma alla fine degli anni ’80 (una scelta non soltanto narrativa, in quanto proietta la sua prosecuzione della storia presente nel prossimo secondo capitolo, ma anche una scelta logica legata alla rappresentazione filmica, elemento di cui parleremo più avanti); essa segue la storia di un gruppo di ragazzi preadolescenti in un piccolo paese rurale del Maine che, per via di una serie di misteriose ed inspiegabili scomparse che colpiscono duramente il luogo, decidono di unirsi ed indagare in prima persona sull’accaduto anche per via dell’apparente disinteresse della comunità locale, creando un gruppo chiamato Il Club dei Perdenti; è così che essi scopriranno la causa di tutto ciò, una creatura metafisica che si manifesta ogni 27 anni, incarnando le paure delle sue vittime per soggiogarle e portarle via con sé, che anche loro possono vedere, e che verrà ribattezzata It dagli stessi protagonisti, pronti a combattere insieme per fermarla.
Recensione del film
La sola premessa narrativa del film, che come precedentemente citato prende a piene mani da quella di King, ci cala sin da subito all’interno di una storia dal sapore estremamente classico, reminescente di certi canoni del racconto tipicamente legati ad un’epoca passata, elemento che è stato catturato in modo molto efficace da parte degli sceneggiatori che sono stati capaci di imbastire uno sviluppo che riecheggia particolarmente quelle atmosfere pur mantenendo una dimensione plausibile e quadrata. Uno dei primi elementi da considerare per comprendere al meglio tutto questo è la caratterizzazione dei personaggi: nella sua natura da film corale, ognuno di essi viene sviluppato e approfondito con il giusto livello di profondità personale, tutti vengono perfettamente equilibrati all’interno della narrazione occupando la stessa importanza durante l’intera durata del film, permettendo allo spettatore di entrare a contatto diretto con i protagonisti anche grazie ad un oculato approfondimento degli stessi che talvolta esula dalle interazioni di gruppo, focalizzandosi sulle singole storie di ogni personaggio e definendone i microcosmi psicologici in maniera sufficientemente dettagliata da dare un senso di tridimensionalità a chiunque. Un’altra componente importante è determinata da una costruzione estremamente realistica dei protagonisti, che in tutto e per tutto sono degli adolescenti di natura quasi universale, capaci di incarnare perfettamente elementi tipici di questo periodo di crescita e risultare molto vicini ad ogni tipologia di spettatore per via di drammi personali ben definiti che avranno un peso tematico importante sulla storia, ma anche grazie a dei dialoghi diretti, il cui linguaggio è sporco, spesso volgare, perfettamente in bilico tra espressioni infantili e concettualità più mature, e dinamiche d’interazioni plausibili, coerenti tra i caratteri degli individui; anche il loro rapporto con la cittadina in cui abitano è un elemento da non sottovalutare: essa viene dipinta come un luogo letteralmente vuoto e privo di vita, in cui il mondo degli adulti è totalmente indifferente ed avulso agli eventi circostanti e in cui solo i giovani protagonisti riescono ad imporre la propria volontà, ed è proprio qui che si va a creare un contrasto interessante che pone l’accento sull’attitudine ribelle tipica di questa età, dando ancora più vigore e carisma ai personaggi e alle loro motivazioni. Infine, ogni problematica dei ragazzi forma, nell’insieme, un dipinto molto sincero dell’adolescenza stessa in cui si trattano temi come l’alienazione sociale, il bullismo, la disfunzionalità familiare in diverse forme o l’insicurezza della maturazione, inserendoli perfettamente nella coesione della storia e rendendoli parte di un contesto più ampio di quanto si pensi.
La totalità di questi punti fermi andranno a costituire un parallelo fondamentale con l’altro punto di vista della narrazione, ovvero quello strettamente legato agli elementi più oscuri e malsani che danno vita alla componente horror del film, che a sua volta condivide molteplici punti in comune con quella più drammatica; anche questa si serve dello sviluppo dei personaggi per stabilire la sua forza espressiva, in quanto l’elemento sovrannaturale fornito dalla figura di It, che in quest’occasione si manifesta principalmente nella forma clownesca di Pennywise, simbolicamente sibillina e in bilico tra infanzia ed età adulta, si impossessa delle paure delle proprie vittime per nutrirsi di esse e soddisfare la sua fame di anime umane, creando ulteriori squarci inquietanti, disturbanti e claustrofobici sulla psiche dei personaggi, materializzando efficacemente gli angoli più reconditi di questi e presentandoli con grande esplicitezza e brutalità, veicolando un forte senso di tensione e d’impatto emotivo per via dell’enorme vulnerabilità della mente umana, potere che rende It, e più nello specifico Pennywise, un antagonista terribile per via del suo potere e temibile per le informazioni che possiede, che lo rendono un’entità imprevedibile, astratta, sconnessa e quindi costantemente pericolosa, strisciante e destabilizzante, ma che proprio per questo porterà i ragazzi ad unirsi per sconfiggerla e darsi forza reciproca, filtrando un’ottima parabola sul concetto di collettività e dell’importanza di un supporto reciproco in vista di un obiettivo comune.
Tale aggancio ci permette di tornare al parallelismo con la realtà della vita quotidiana, dove invece si manifesta un altro tipo di orrore, più umano, vicino a noi e quindi per questo ancor più terrificante e difficile da eradicare, perché risulta più crudele e struggente in quanto inflitto da un proprio vicino, e che nel contesto filmico offre un trait d’union che unisce indissolubilmente i due piani narrativi, che diventano elementi speculari per osservare l’intero quadro esplicativo, atto a formare quella che in fin dei conti è una favola gotica di stampo formativo non dissimile da quel cinema che il film stesso vuole tributare.
Non a caso il regista di questo film è Andrés Muschietti, un cineasta che affonda le sue radici cinematografiche all’interno di un contesto ben preciso, che già avevamo avuto modo di osservare estensivamente nella sua opera prima, Mama, e che qui ritorna in modo preponderante e ben evidente in ogni fotogramma della pellicola. Effettivamente, se osserviamo il comparto visivo ed estetico, possiamo notare come esso tenda a seguire la falsariga filosofica delineata dal concept della scrittura, ove sono presenti numerosi rimandi affettuosi al cinema del passato ma rimanendo ancorati fedelmente ad una visione contemporanea degli stessi. Il regista argentino compone It come un film fortemente citazionista, che si appoggia sui padri putativi del suo immaginario per veicolare la rappresentazione e la messinscena; innanzitutto, l’uso di movimenti di macchina e campi lunghi molto ampi, supportati da una vistosa ma equilibrata presenza di carrellate, ricordano fortemente lo stile visivo spettacolare e di largo respiro di Steven Spielberg, Rob Reiner o Richard Donner, proprio per sottolineare ulteriormente un certo tipo di estetica e ricostruzione storica tipicamente anni ’80, ma oltre a ciò notiamo anche altre influenze date dagli estensivi piani sequenza, inseguimenti, primissimi piani ossessivi e una manipolazione prospettica della macchina da presa che attingono maggiormente dal cinema di genere horror dello stesso periodo, con echi di Sam Raimi e di altri autori prominenti come Tim Burton, le cui influenze si estendono anche all’estetica gotica che pervade l’intero film con dei forti tocchi contemporanei molto vicini a Guillermo del Toro; tecnicamente ci troviamo davanti ad un pot-pourri di tante anime diverse che si uniscono nella visione di un singolo visionario, che riesce a mantenere comunque un proprio occhio personale rappresentando la storia abilmente in ogni sequenza, per via di una regia che rimane costantemente coerente con il contesto storico del film, che in questo caso costituisce un parallelo molto efficiente in cui racconto e messinscena coincidono, e si dipana tra le file del passato e del presente, mostrandoci anche una cura per la composizione dell’immagine decisamente lodevole, in primis per quanto riguarda la realizzazione della fotografia che muta la propria forma perfettamente a seconda delle sequenze, dove possiamo osservare colori più morbidi, forti e caldi ma flebilmente decadenti nelle fasi più intimiste della pellicola e un manto di oscurità composto principalmente da grigi e neri in quelle più grottesche e estrememente cupe, risultando occludenti e intrappolanti al limite della claustrofobia ed arrivando persino ad evocare un immaginario molto simile a quello che descriveva H.P. Lovecraft nei suoi scritti.
Tutto questo accade senza che il film perda coesione visiva o risulti poco fluido nelle transizioni atmosferiche, con un risultato molto organico ed efficace in cui la connivenza tra orrore e dramma diviene ancor più evidente. Per quanto tutto questo paia lasciar presagire una descrizione agiografica del prodotto, in realtà è proprio nel lato tecnico che si celano i principali difetti di It, dovuti principalmente alla poca esperienza del regista e ad una gestione meno equilibrata di alcuni punti specifici in tal senso; le sequenze più strettamente horror talvolta soffrono per via di un ritmo narrativo sporadicamente troppo frenetico che inevitabilmente frena il montaggio della tensione emotiva di tali scene, inoltre nonostante una realizzazione degli effetti visivi piuttosto buona la sovrabbondanza di computer grafica in alcuni istanti rompe il coinvolgimento mostrando la fasullità di tali situazioni, rendendo quindi esse stesse meno efficaci di quanto dovrebbero essere. Un ultima critica invece è da appuntare alla colonna sonora, componente molto riuscita in quanto Benjamin Wallfisch offre una musicalità orchestrale impetuosa e ossessivamente tensiva, passando da strumenti da composizione classica a forti inflessioni elettroniche con grande varietà, ma che non sempre viene ben misurata nell’inserimento al contesto scenico, risultando talora troppo invasiva e distrattiva andando a soverchiare la cornice cinematografica.
Quest’ultima lista di difetti ci serve per constatare quanto in verità l’ultima opera di Muschietti non sia per ovvi motivi un’opera perfetta, in quanto si tratta del secondo film di un regista ancora in divenire nella sua crescita artistica e che quindi incorpora tutte le possibili farraginosità del caso; proprio per questo, in realtà, ci troviamo davanti ad un film sorprendente, che riesce a prendere sulle spalle il proprio compito e portarlo a compimento con una realizzazione interessante e che lascia spazio ad un racconto estremamente onesto e sincero, in cui seguiamo una storia semplice ma narrata con garbo e passione, in espansione oltre la superficie per veicolare dei messaggi positivi e allacciare un rapporto diretto con lo spettatore: non semplicemente un’ottima trasposizione, ma una bellissima storia sull’amicizia, sull’intensità delle emozioni e sulla capacità di trovare anche in un gruppo la propria identità e la propria crescita, combattendo insieme contro le avversità della vita stessa nonostante tutto.