Il ladro di giorni: Recensione del deludente film con Scamarcio
In selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma arriva finalmente il momento di un film italiano: Il Ladro di Giorni di Guido Lombardi con Riccardo Scamarcio narra la vita di un padre e di un figlio lungo sette anni di “forzata separazione”.
Il protagonista è Vincenzo (Riccardo Scamarcio), un piccolo delinquente pugliese condannato a sette anni di carcere per esser stato coinvolto in una sparatoria. I contorni prevedibili dei fatti vengono mostrati gradualmente in flashback, caricati inutilmente di suspance. Il film si apre con il suo arresto davanti agli occhi del figlio durante le vacanze al mare. Sette anni dopo, quando il piccolo Salvo (Augusto Zazzaro) ha dodici anni, il padre va in Trentino dove il bambino vive con la famiglia della zia da anni, per passare alcuni giorni insieme.
Vincenzo porta il figlio a Bari, nella sua terra, sia per trascorrere effettivamente qualche giorno con lui, ma anche per convenienza. “Un bambino è meglio di una pistola”, dice Scamarcio all’inzio del film. Durante il viaggio, tuttavia, padre e figlio – che sono diffidenti l’un l’altro – riescono a tornare in sintonia e si ristabilisce l’armonia persa tanti anni prima. Sullo sfondo, però, c’è pur sempre una missione criminale da compiere per saldare i conti su ciò che è successo anni prima.
Il film, che già di per sè ricalca generi ben più noti, delude fortemente le aspettative risultando vuoto e per certi sensi privo di senso in alcuni passaggi di sceneggiatura. Salvando la buona interpretazione di Riccardo Scamarcio (fattosi notare, nella seconda parte della sua carriera, per ruoli da piccolo criminale del Sud), il film è totalmente affossato da dialoghi banali (se non addirittura scontati) e da una sceneggiatura non all’altezza.
Un film in viaggio verso il Sud
La commistione tra road movie e revenge movie (come si è definito il film in conferenza stampa) funziona male ed è accomunabile a tante altre esperienze italiane andate in quel senso. Il ladro di giorni (si scoprirà solo nel finale di chi si tratta) è solo il pretesto che il protagonista utilizza per giustificare una mediocre carriera criminale e l’inadeguatezza di Vincenzo come padre. In altre parole, la narrazione si sposta dalle cattive abitudini del padre, al ruolo di una persona terza che lo spedisce in carcere, impedendogli di passare “giorni” con il figlio.
Regge ben poco la narrazione che vede il padre appena uscito di carcere come “angelo custode” del piccolo, il quale vive una vita tranquilla a Bolzano con la famiglia. Nel breve viaggio dei due si idealizza in un certo senso la vita criminale e il malcostume, mostrato come certamente più eccitante di una comune vita cittadina passata tra scuola e sport.
Adeguata è la lapidaria descrizione che due turiste austriache danno del personaggio di Vincenzo (“è cafone ma ha un bel culo”). Il film quasi esalta la cafoneria paesana del personaggio e la rende più “figa” di quanto dovrebbe essere.
Il finale è abbastanza incomprensibile
A penalizzare fortemente la sceneggiatura è la gestione del finale. Il risvolto conclusivo quasi melodrammatico toglie di credibilità al film, rovinando ciò che di buono era stato proposto finora. La volontà di trasformare una comune crime story italiana in un noir si scontra con difficoltà oggettive: in primis la scrittura che ammicca esageratamente al televisivo e poco al cinematografico.
In “Il Ladro di Giorni”, salvando alcune buone prove attoriali ed una volontà di diversificare, c’è comunque poco di positivo da evidenziare. Sul grande schermo, quindi, assolutamente poco da lodare, neanche la capacità di intrattenere il pubblico con una trama verosimile.