Donna di Ariano morta a Milano, il figlio: “Legata a letto e sedata”
La storia, triste, della signora Wanda. La denuncia del figlio Piero a TPI
Immobilizzata a letto e imbottita di farmaci che l’hanno condotta il 16 aprile alla morte, avvenuta “per arresto cardiaco”. Questa è la storia di Wanda, di 75 anni e originaria di Ariano Irpino (Avellino), raccontata a TPI dal figlio Piero, che chiede chiarimenti sulla vicenda. Sua madre, che curava un leggero diabete, conduceva uno stile di vita sano ed era stata contagiata dal Coronavirus.
Ma i fatti parlano d’altro. “Mia madre ha subito una tortura vera e propria – racconta Piero -. Me l’hanno fatta impazzire in cinque giorni in ospedale. L’hanno imbottita di morfina, ansiolitici, antipsicotici, antidepressivi, altri oppiacei fino a quando il suo cuore ha ceduto”. Un trattamento che non segue il protocollo previsto per la cura del covid, culminata con la diagnosi dello psichiatra: “Delirium tremens con schizofrenia a tratti allucinatori”.
Il motivo, aggiunge il 48enne, è legato al fatto che non sopportava il casco. “Tutto questo solo perché non sopportava il casco. Me l’hanno immobilizzata anche alle braccia e alle gambe, come se fosse una criminale forzuta, invece pesava 58 kg ed era alta 160 cm. Non mi hanno mai detto niente. Niente. E soprattutto mai che stavano praticando l’eutanasia, perché questa è! Poi se vogliamo chiamarla cura palliativa, che accompagna il paziente alla morte, la sostanza non cambia. Capisce?!”, aggiunge l’ex consulente finanziario.
Di conseguenza, la morte è avvenuta per arresto cardiaco: “Tracciato dell’elettrocardiogramma non rileva presenza di attività elettrica per 20 minuti. Si conferma exitus. Si avverte il figlio”.
La storia
Il calvario di Wanda comincia il 7 aprile, quando le sue condizioni di salute si aggravano. “Mamma si sveglia all’alba, apre il frigo ma le gambe non la reggono. Stava svenendo. Le vado incontro. Mi guardava ma non rispondeva, ovvero non riusciva a rispondere per l’affanno e la debolezza. Il 7 aprile si aggrava: non beve e non mangia. Chiamo il 112. Aveva saturazione a 88 e viene trasportata anche lei nel mio stesso ospedale, prima al pronto soccorso, poi nel reparto di Medicina II, dove ero stato guarito visto che anche lei era risultata positiva al Coronavirus con polmonite bilaterale, ma gli altri valori erano sotto controllo”.
Le cose cominciano a farsi strane quando Piero va a trovarla il giorno dopo: “La saluto. Era stordita, perché essere attorniata da medici che sembrano astronauti, compreso il figlio, non deve essere affatto piacevole né rassicurante. Ma era tranquilla, mi sorrideva e mi parlava. Quella è stata l’ultima volta che l’ho vista viva, come era lei: bella, pura e solare”.
Il mix di farmaci e il casco Cpap
Wanda, rimasta nel reparto di Medicina II per cinque giorni, è stata soggetta a un vero e proprio “accanimento” farmacologico: non solo il mix di morfina, ansiolitici, ipnotici antidepressivi, antipsicotici e antischizofrenici somministrato tutto il giorno, ma anche il cosiddetto casco Cpap, ossia una maschera di ventilazione assistita molto invasiva, che non sopportava e cercava di rimuovere. Atteggiamento costatole, l’11 aprile, la somministrazione di due flaconi di morfina, antipsicotico e antischizofrenico. Tutto questo riportato nella cartella clinica consultata dal figlio Piero.
Il dosaggio di quei farmaci è stato potenziato poi dal pomeriggio fino alla sera, come scritto dai medici. La mattina del 12 aprile li riducono, vista la “sensazione di confusione verosimile sovradosaggio questa notte, temporaneamente incrementata a 4 fl morfina”. In più, le infondono una dieta ipercalorica e proteica che aggrava la situazione.
Poi avviene la videochiamata, raccontata da Piero: “Mia madre era stordita. Rallentata. Chiedevo spiegazioni, mi dicevano che la situazione era critica visto che non sopportava il casco e che l’avrebbero trasferita nel reparto di Pneumologia e malattie infettive”. Dopo la videochiamata, la 75enne si agita e le viene somministrata nuovamente altra morfina accompagnata da antipsicotici.
“Giunta lì il 12 aprile sera le inseriscono la Niv (ventilazione non invasiva senza casco) – afferma il figlio – è intollerabile per un giovane figurasi per una persona apprensiva! Mi sono sempre chiesto come mai in pochi giorni si trova dal reparto Medicina II in quello di pre-intensiva di Pneumologia: eppure i parametri della cartella clinica davano saturazione al 99% per più giorni, glicemia normale, la pressione era un pochino alta, ma vista l’agitazione e che mal sopportava i presidi medici, casco e niv, era comprensibile quel dato. Ma non capisco tutte quelle somministrazioni infinite di morfine e sedativi senza l’ombra di una terapia anti Covid. Un altro genere di malato mi verrebbe da dire leggendo le pagine stilate da infermieri e medici”.
A questo punto la storia diventa ancora più tragica: “Come era ovvio, mia madre cerca di rimuovere la niv e dice ai medici di stare bene. Aveva solo bisogno di essere tranquillizzata. Invece bombe e cocktail di farmaci che ti bruciano il cervello. Così i medici chiamano al telefono lo psichiatra di guardia più volte che sospende l’antipsicotico e somministra ansiolitici, ipnotici e morfina, poi mi fanno videochiamata con il tentativo riuscito di far calmare mia madre. M’informano che se dovesse rifiutare o tentare di nuovo di togliere la ventilazione le metteranno di nuovo il casco. Di notte cerca di strappare la niv, altra morfina, più tre farmaci neurologici e Cpap”.
Ciò ha indotto Piero a chiamare per tre giorno di fila in reparto per sentire la madre. Dal reparto, continua il 48enne, “mi dicevano che sta dormendo e che era meglio lasciarla riposare. Un black-out da sulle condizioni reali di salute di mia madre per tre lunghissimi e interminabili giorni. Ero disperato”.
Da lì in poi un susseguirsi di farmaci, morfina, ansiolitici e non solo che hanno aggravato le condizioni di salute di Wanda. Proprio 16 aprile, Piero viene informato che sua mamma è in fin di vita. Dalla cartella clinica è emerso un quadro decisamente straziante: infatti Wanda è terminale, ha 36 di temperatura, 110 battiti cardiaci al minuto e la pressione arteriosa è di 90/50. Intanto i sanitari le aumentano la velocità di infusione di morfina, del sedativo e viene trasferita in reparto a minore intensità di cure, preposto all’accoglienza di pazienti per poche ore.
La 75enne giunge in reparto in stato comatoso, dove le incrementano nuovamente il dosaggio della terapia palliativa assistita: 2 flaconi di midalozam (sedativo ad azione rapida), 4 flaconi buscopan e 8 flaconi di morfina. La morte di Wanda giunge dopo due ore con l’arresto cardiaco.
Lo sfogo di Piero
Lapidario e da pelle d’oca lo sfogo di Piero: “È entrata in ospedale con il Covid ed è uscita avvolta in un sacco di nailon con varichina. L’unica colpa che ha avuto mia mamma è che non sopportava il casco. Non tollerare i presidi medici molto invasivi, è una giustificazione per attuare il protocollo di cure palliative? Mi comunicavano che stava dormendo e che sarebbe stato meglio lasciarla riposare visto che le avevano somministrato piccole dosi di morfina per farle accettare meglio il casco”.
Ha poi aggiunto: “Altro che piccole dosi di morfina: otto psicofarmaci potenti oltre alla morfina, alcuni sospesi di colpo e somministrati altri senza traccia di antivirali per il Coronavirus. Perché non mi hanno avvertito che avrebbero intrapreso questo protocollo di morte? A chi spetta la decisione della “eutanasia” a me o a loro? Perché la mia mamma è stata trattata come una paziente schizofrenica immobilizzandole addirittura braccia e gambe per tre volte? Hanno scritto che è era in preda a delirium tremens: qualcuno ha mai preso alti dosaggi di morfina, più cocktail di psicofarmaci per sei giorni, tre volte al giorno per endovena? Perché tutto questo? Era tanto buona e fragile”.
La replica dei sanitari
Matteo Stocco, direttore generale dell’Azienda socio sanitaria territoriale “Santi Paolo e Carlo” di Milano intercettato da TPI, si è così espresso sulla vicenda:
Abbiamo assistito molti pazienti affetti da Covid, alcuni dei quali, con prognosi infausta e non più responsivi ai trattamenti specifici, hanno potuto beneficiare delle cure palliative. Grazie agli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, propri di tali cure, si è riusciti ad alleviare loro le sofferenze della fase terminale della vita”.
Per quanto riguarda il dovere dei medici di informare i familiari in merito alla somministrazione di oppiacei in associazione ad altri farmaci, Stocco ha aggiunto:
Ovviamente i familiari, soprattutto in questa particolare condizione di “lontananza forzata” dal parente ricoverato, sono stati costantemente informati telefonicamente dal personale medico sulle condizioni cliniche del paziente e sulla necessità di somministrare, se necessario, trattamenti con oppiacei e sedativi a scopo palliativo e come da linee guida internazionali. Oltre al servizio di video chiamata, per permettere al paziente di dare l’ultimo saluto ai propri cari, abbiamo messo a disposizione dei familiari una linea telefonica di supporto psicologico”.
E sull’esistenza di un protocollo che stabilisce i dosaggi per queste cure nei pazienti Covid-19, il dg ha ribadito: “I protocolli clinici utilizzati sono stati quelli comunemente utilizzati e raccomandati dalle Società scientifiche e dalle Linee guida nazionali ed internazionali”.